Entro in una classe piena di ragazze e ragazzi dalla seconda settimana di settembre alla prima settimana di giugno. Ogni giorno ho la possibilità di confrontarmi con loro e di provare a costruire un dialogo educativo.
Lo faccio da insegnante di italiano e storia, discipline che comportano un continuo scambio dialettico e la necessità di fornire interpretazioni soggettive su una vasta gamma di argomenti. Vi assicuro che non è un’esperienza entusiasmante.
Sgomberiamo subito il campo da equivoci. Non si tratta dell’ennesimo sfogo di un docente fuori sede, che si lamenta della scarsa retribuzione o del poco riconoscimento sociale. Le condizioni contrattuali sono note a chiunque lavori nel pubblico impiego e, qualora risultassero insoddisfacenti, esistono strumenti
per esprimere dissenso. Né si tratta di un’invettiva contro le nuove generazioni, incapaci di riconoscere il valore dei loro insegnanti perché troppo assorbite dagli smartphone o inclini a svolgere i compiti con l’aiuto dell’intelligenza artificiale.
La scuola senza studenti è una scatola vuota. L’unica vera ragione per svolgere questo mestiere è quella di contribuire alla formazione di soggetti che, per forza di cose, non possiedono ancora adeguati strumenti culturali.
Torniamo, dunque, alla mancanza di entusiasmo. Provare a discutere con studentesse e studenti rende evidente un enorme problema: l’assenza di una grammatica delle emozioni.
Capisco che l’espressione possa risultare impropria. Non ho solide basi di psicologia e potrei commettere un errore concettuale. Tuttavia, non saprei in che altro modo definire l’incapacità di immedesimarsi nella rabbia di Achille o nel dolore di Andromaca durante la lettura dell’Iliade, lo sguardo assente di fronte
alla vicenda di Peppino Impastato ne I cento passi, o la totale assuefazione davanti a episodi di bullismo che non coinvolgano direttamente.
Eppure, in nessuno di questi casi riscontro vera indifferenza. L’indifferenza è una scelta: decidere di non prestare attenzione a ciò che si ha di fronte. Quello che osservo, invece, somiglia alla reazione di chi si imbatte in una poesia scritta in arabo senza conoscerne l’alfabeto. Non è mancanza di volontà, ma
incapacità di accedere a un significato.
Spesso, soprattutto dopo notizie di cronaca drammatiche, riemerge lo spettro del “disagio giovanile”. Eppure, di questo disagio non c’è traccia tangibile.
Anche qui, è necessaria una precisazione. I giovani vivono disagi – alcuni comuni a quelli delle generazioni precedenti, altri profondamente legati ai tempi che abitano. Ma affrontano queste difficoltà in silenzio, comunicando quasi esclusivamente tra pari, escludendo gli adulti sia nel bene che nel male. Non ci sono richieste esplicite, né accuse chiare, né vere rivendicazioni. Così, il più grande gesto di ribellione diventa l’isolamento volontario, l’annullamento del sé, il ritiro da una scena abbandonata ancor prima di salirvi.
Per rendere al meglio questa idea, mi viene in mente Lisa Simpson, le cui avventure – insieme a quelle della sua famiglia – furono uno dei primi motivi di scontro generazionale con i miei genitori, contrari alla visione di quei pupini gialli durante i pranzi.
Nelle prime stagioni, Lisa rappresentava la voce razionale della comunità: fuori dal coro, impopolare ma capace di vedere oltre l’ottusità del padre e l’arrendevolezza della madre. Lottava per un mondo diverso da quello ereditato.
Col tempo, però, anche lei è cambiata: è diventata una preadolescente ansiosa, talvolta ossessionata dal proprio aspetto, impaurita dalle aspettative. Da simbolo di una sofferenza condivisa, Lisa è diventata emblema di un dolore privato e ha perso la capacità di filtrare emozioni più grandi di lei ma non per questo incomprensibili.
Fornire le coordinate per sviluppare una grammatica delle emozioni è una sfida complessa, ma forse l’unica in grado di offrire una direzione autentica al futuro.
L’alternativa resta quella di lasciare che i ragazzi diventino adulti e di sperare che le cose si sistemino da sole. Con tutti i danni che ne conseguono.