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sabato 20 Aprile 2024

sabato 20 Aprile 2024

L’anniversario della morte dei 368 naufraghi del 2013 a Lampedusa (foto)

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5 minuti

1412329284026di Marco Morana

Il caldo lampedusano avvolge ogni centimetro del corpo. Alle otto del mattino l’aria è già irrespirabile. Si ritrovano tutti al molo Favarolo per ricordare i propri cari: morti nel naufragio di quel maledetto 3 ottobre 2013.
In loro onore dipingono le barriere flangiflutti: blu, rosso, giallo.
Con un gesto pietoso e carico di ricordi qualcuno scrive: i miss you, mi manchi. C’è pure Tareke. E’ nato in Eritrea. Oggi vive a Roma. Ha attraversato il Mediterraneo più volte e più volte è stato respinto. Poi nel 2005 è approdato a Lampedusa. Ora aiuta chi, come lui, è sopravvissuto al mare ed è sfuggito all’orrore.
Intanto, intorno al molo cala un silenzio irreale, il ricordo, la disperazione sono qualcosa di palpabile adesso. Telecamere e macchine fotografiche indugiano sul dolore di chi in quell’ultimo lembo d’Italia ha perso il proprio caro, un figlio, un genitore. O semplicemente un amico. Lo sguardo di una donna eritrea si perde nel mare fino a sposarsi con le onde, fin giù negli abissi dove giace il relitto della barcone sul quale c’era il suo amore. Deve averlo immaginato quel rogo, fino a sentirne le fiamme. Deve avere immaginato la sete, fino a sentirne l’arsura.
Il cuore in gola, la disperazione. Il pianto. E’ un canto antico il pianto delle donne africane, melodie lontane dense di ricordi, di storie, di sofferenze. Eppure in questo immenso dolore emerge prepotente l’eleganza dei loro gesti. O tutto o niente. o bianco o nero, o la vita o la morte. Il compromesso non esite nelle loro storie. Non esiste nella loro cultura. Te ne accorgi dall’espressione dei loro volti, dalle mani, dalle loro parole. Esiste il coraggio dell’ignoto. Eppure, secondo gli antichi greci e proprio quando non c’ è scelta, non c’è un criterio oggettivo a cui aggrapparsi che si realizza la libertà dell’uomo. Come Ettore che doveva scegliere: vivere da vigliacco o morire da eroe. Come Tareke: vivere in catene o abbracciare l’abisso.
Più tardi, qualche metro più in là, su una spiaggia tutti si avvolgono in bianche lenzuola, davanti ai bagnanti: lo chiamano flash mob. Un altro modo per non dimenticare. per testimoniare il dolore. Dall’altra parte dell’isola, nella sala convegni dell’aeroporto, la politica internazionale discute, come mille altre volte. Qualcuno non ci sta. Una protesta monta all’esterno. Qualche cartello contro Martin Schultz, il presidente del Parlamento europeo. Altri ancora contro Laura Boldrini e Angelino Alfano. Un altro gruppo di manifestanti impedisce al tg 2 di fare la diretta dall’isola.  Basta passerelle, basta menzogne, basta pagliacciate. “Lampedusa – ci dicono i pescatori – è solo ricordata quando ci sono i rilfettori”.
Quello del 3 ottobre doveva essere un ricordo silenzioso. A mezzogiorno, i pescatori, lasciano una corona di fiori sul punto in cui i 364 naufraghi persero la vita il 3 ottobre. “Difendere le persone non i confini”, c’è scritto nelle magliette che indossano Tareke e gli altri. Un messaggio a quella politica che pensa di arrogarsi il diritto ai respingimenti per una sola questione di confini politici. Ma nessuno è padrone della terra in cui vive.
Prima dei confini ci sono i diritti umanitari. L’accoglienza, la fratellanza. Nel pomeriggio, dalla chiesa, un lungo corteo si dirige ancora in riva la mare. C’è una scultura, una porta. La porta d’Europa. Lampedusa è l’ingresso, l’approdo della speranza. C’è il diluvio, ma il corteo non retrocede.
Di mattina il caldo avvolgente. Nel pomeriggio la pioggia violenta e i fulmini. Metafora del viaggio dei disperati. Metafora del naufragio.

 

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