Ho da poco compiuto 57 e se c’è un’esperienza che posso considerare generazionale, in relazione alla mia infanzia/giovinezza, è la fascinazione profonda, duratura, ipnotica, condivisa con i miei coetanei, per il Pinocchio di Comencini (la RAI lo mandò in onda nel 1972). E, soprattutto, per i temi musicali della colonna sonora del grande Fiorenzo Carpi, che così tanto hanno arricchito il film.
Quelle melodie me le porto in testa da allora: sono diventati il soundtrack memoriale della mia infanzia, le musica che sento dentro ogni volta che penso a mia madre – una voce parallela che aggiunge al racconto cinematografico qualcosa che in nessun altro modo si sarebbe potuto esprimere, raccontare. Quando è uscito Clandestino, il primo album solista di Manu Chao, era il 1998. Mia figlia aveva appena un anno e io ero ancora abbastanza giovane da conservare curiosità per le novità musicali: quel disco mi piacque così tanto (come del resto i precedenti, firmati Mano Negra), mi parve così easy listening, da cominciare a usarlo come ninna nanna per addormentare, soprattutto nelle pause postprandiali, la bambina (insieme a un altro grande album uscito l’anno dopo, Buona vista Social Club di sua maestà Ry Cooder).
Sarà per questo che 26 anni dopo mia figlia, memore delle sue inconsuete ninna nanne, ha regalato a me e a sua madre i biglietti per il concerto di Manu Chao che si è svolto lo scorso 20 agosto al Piccolo parco urbano. Ci siamo andati tutti e tre – padre, madre, figlia: e non senza una qualche, ben tacita, riserva emotiva. Se anche non ce lo siamo detti esplicitamente, il gioco degli sguardi incrociati, durante il concerto, ci ha dato la certezza che, in qualche modo, quella riserva emotiva non era incongrua: la nostalgia ci stava tirando un brutto scherzo. Niente di quello che stavamo ascoltando, niente di quello che accadeva intorno a noi, ci restituiva, se non come una lontanissima eco, ciò che quella musica, un tempo, ci aveva regalato. Se non avessimo conosciuto a memoria le parole dei brani più datati, avremmo avuto la certezza di aver ascoltato per due ore la medesima canzone intervallata, simpaticamente prima, ossessivamente poi ( e, infine, stucchevolmente), da uno dei temi di Carpi (Pinocchio in groppa al tonno) per il film di Comencini. Ci ha preso la soffocante sensazione di essere finiti dentro un piccolo labirinto sonoro, fatto della ripetizione ossessiva del medesimo schema, da cui risultava penoso sentire di volersi liberare al più presto. È stato come rinunciare a un piccolo tesoro etico ed estetico che si era gioiosamente condiviso, nel quale si era creduto: quello di una star internazionale che ha marchiato la sua musica con le stimmate della lotta contro la globalizzazione; un viandante che ha percorso le strade del mondo subalterno e marginale per gridarne le miserie e la incrollabile umanità; che ha sposato e combattuto cause che mi sono sempre state a cuore; uno che non accetta il mondo così come è e, con le risorse interiori di cui dispone, cerca di cambiarlo. Almeno un po’. Un poeta militante, perduto forse, ma non del tutto – proprio come noi? – en el corazón de la grande Babylon. E invece, man mano che il tema di Geppetto tornava a far saltare e ballare la folla, si ampliava una lacerazione che, come un monito, avevo sentito aprirsi fin dall’inizio del concerto. Forse quelle cose in cui si è sempre creduto – e di cui la musica di Mau Chao è stata per me una delle migliori sintesi “popolari” – non sono più le medesime cose in cui si è creduto? Le vecchie categorie, gli schemi un tempo solidi, si sbriciolano sempre di più dentro un presente che si rivela tanto più incomprensibile quanto più ripropone vecchie sudditanze, diseguaglianze, ingiustizie. Mi sentivo davvero di sinistra, tanto tempo fa, quando ascoltavo Manu Chao: e credevo di sapere cosa ciò significasse. L’altra sera invece durante il concerto, mi sono sentito davvero me stesso soltanto nell’ascoltare il refrain “tarantellizzato” del tema di Fiorenzo Carpi: memoria sonora della mia infanzia e di una storia (Pinocchio) che, al di là delle molteplici interpretazioni che ne hanno viziato la ricezione, ci dice che, prima o poi, arriva per tutti il desiderio di tornare a casa, qualunque cosa essa sia e rappresenti. Non sono più di sinistra, ho pensato tornando a casa dopo il concerto e riflettendo sulla estraneità che avevo sentito per la musica e, forse ancora di più per il contesto attorno ad essa.
Destra e sinistra sono categorie troppo rigide, e forse anacronistiche, per spiegarsi con dovizia di senso il mondo in cui ci sta toccando di vivere? Eppure mi sembra ancora così immediatamente esplicativo ciò che ebbe a dire la Achmatova a proposito di Pasternak: un uomo che ha il cuore al posto giusto, lo avrà a sinistra. Non so perché io continui a sentirmi di sinistra, ma riesco ancora ad avere chiaro perché non riuscirò mai a sentirmi di destra. E forse questo, mi dico una volta arrivato a casa, lo devo a Fiorenzo Carpi, a Carlo Collodi, a Luigi Comencini più che a Manu Chao e alla sua musica che non scalda più il cuore. Sto invecchiando. E con me invecchia il mondo in cui sono cresciuto – o è già morto, e io con lui, e non ho il coraggio di confessarmelo. Perdido en el siglo XX.