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venerdì 29 Marzo 2024

venerdì 29 Marzo 2024

“La sindrome del bambino scosso”. Intervista al dottor Antonino Gennaro

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7 minuti

di Stefania Morreale

Oggi parliamo con il dottor Antonino Gennaro, pediatra di famiglia a Palermo e membro dell’Associazione Medica Bagherese.

 Dott. Gennaro, buongiorno. Partiamo da un recente fatto di cronaca per affrontare un argomento molto delicato: la sindrome del bambino scosso…
“Buongiorno. Sì, lo scorso 21 dicembre a Padova si è verificato questo gravissimo episodio: un lattante di 5 mesi è finito in coma dopo essere stato scosso dalla madre poiché non si addormentava. Una settimana dopo, la commissione medica dell’ospedale stesso ne ha dichiarato la morte cerebrale e ha interrotto l’accanimento terapeutico.”

Allora ci spieghi, dottore: cosa si intende per sindrome del bambino scosso?
“Con l’espressione “sindrome del bambino scosso” si indica tutta una serie di segni e sintomi ravvisabili in bambini sotto l’anno di età, conseguenti a violento scuotimento, che può comportare danni neurologici molto gravi.”

Che tipo di danni?
“Le conseguenze dello scuotimento possono essere le più disparate, le più gravi e frequenti si verificano a livello cerebrale: emorragie subdurali e/o subaracnoidee, encefalomalacia, edema cerebrale, ma anche emorragie retiniche, nonché fratture scheletriche, tutte situazioni che possono condurre al coma e alla morte.”

Come possiamo accorgerci che qualcosa non va?
“I sintomi che si riscontrano più comunemente sono inappetenza, vomito, difficoltà di suzione, irritabilità, sonnolenza, assenza di sorrisi e vocalizzi, postura rigida, difficoltà respiratorie. Come abbiamo visto, si può andare incontro anche a condizioni molto serie.”

Dottore, come può accadere tutto ciò?
“Lo scuotimento violento del bambino causa, dal punto di vista meccanico, una lesione delle arterie e vene e quindi emorragie e a carico degli assoni (cioè la parte della cellula cerebrale che conduce gli impulsi al di fuori della testa) che vengono stirati in maniera anomala ed eccessiva, fino addirittura alla loro rottura completa.”

Perché queste situazioni sono più frequenti nei bambini più piccoli?
“Questo dipende dalla particolare anatomia del lattante: nei bambini al di sotto di un anno di età infatti il capo è proporzionalmente più voluminoso e pesante rispetto al resto del corpo, e in più la muscolatura che sostiene la colonna cervicale è ipotonica, il tono muscolare è cioè ridotto, tanto è vero che è esperienza di tutti il “ciondolamento” della testa del bambino nei primi mesi di vita. A questo va aggiunto che anche dal punto di vista della struttura e della composizione, il sistema nervoso centrale del bambino a questa età è ancora immaturo.”

Dottore Gennaro, ma perché un adulto, una madre nel caso da cui siamo partiti, dovrebbe scuotere un bambino così violentemente?
“Vede, spesso queste situazioni sono una reazione a un pianto inconsolabile e reputato ingiustificato, reazione che si inserisce in un contesto di fragilità, di esasperazione, di stanchezza fisica e mentale, di sensazione di impotenza rispetto proprio al pianto del bambino; troppo spesso ci dimentichiamo che una neo mamma ha bisogno di aiuto fisico ma anche psicologico. Inoltre è comune riscontro che facendo ondeggiare il bambino questo si calma, come a volte si vede anche nei film, ma il problema sta nella forza che si usa: poggiare una mano sulla guancia di un’altra persona è una carezza se il gesto è delicato, ma diventa uno schiaffo se fatto con forza.
Tutte queste condizioni diventano un mix molto pericoloso, che può portare l’adulto ad attivare quella che intende come manovra consolatoria ma che può rivelarsi invece fatale per il bambino.”

Cosa possiamo fare per prevenire la diffusione del fenomeno?
“Beh sicuramente è fondamentale l’informazione. Spesso gli adulti che si prendono cura del bambino non si rendono conto di quanto serie possano essere le conseguenze dei loro comportamenti. Spetta a noi, come pediatri di famiglia e come comunità, stare vicino a queste famiglie, non lasciarle sole, e provare a intercettare quelle situazioni un po’ al limite della esasperazione, come dicevamo prima, in modo da bloccarle in tempo. Troppo spesso purtroppo a una madre che chiede aiuto per il bambino che piange vengono date risposte evasive.”

 

 

 

 

Cosa direbbe in una circostanza del genere?

La prima cosa da dire subito, con chiarezza, è questa: nei primi mesi della sua vita l’unica forma di comunicazione di un bambino è il pianto; piange se ha sonno, se ha fame, se ha caldo o freddo, se ha bisogno di essere cambiato, se vuole coccole, se ha dolori. Scuoterlo per calmarlo, per tutto quello che abbiamo visto, non è la soluzione.

 

Allora cosa fare?

Le soluzioni da mettere in pratica sono tante: abbracciarlo in modo da fargli assumere la posizione fetale, cullarlo nella carrozzina, fargli un bagnetto, rilassarlo con un suono continuo, preferibilmente tenue, cantare una ninna nanna. E poi, eventualmente, chiedere aiuto.

 

Aiuto?

Sì. A un parente, a un amico, al pediatra di fiducia. Quando si percepisce di non riuscire a farcela da soli, di non riuscire a gestire questo pianto, può essere utile prendersi una piccola pausa, per riacquistare il proprio equilibrio. Siamo esseri umani e possiamo avere momenti di fragilità, a maggior ragione dopo l’arrivo di un figlio. Non bisogna vergognarsi di ammettere di non farcela.

 

 

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